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giovedì 30 giugno 2016

I cassetti dell'anima


Lo avevo già detto in un uno dei primi post che ho scritto su questo blog ormai tanti anni fa: mettere a posto è un po' come guardarsi dentro, fare un viaggio nella propria storia e scoprire cosa siamo stati e cosa saremo. Buttiamo via oggetti, ricordi, parti di noi che decidiamo non esserci più necessari e rimettiamo a posto altre cose dalle quali ancora ci sembra impossibile staccarci.

La mia camera non è mai stata granché ordinata e la mia tendenza all'accumulo non ha aiutato: per qualche motivo ogni oggetto mi sia capito tra le mani per me non è mai stato semplicemente un oggetto, ma un frammento di storia, che si trattasse di un biglietto del cinema, di uno scontrino di Starbucks o del ritaglio di un giornale. Col tempo questa mia tendenza ha raggiunto livelli di preoccupante insanità mentale e ho iniziato ad accumulare i depliant del cinema, quelli di Blockbuster, fino anche ad una selezione di sacchetti di negozi nei quali ho fatto acquisti durante alcuni viaggi all'estero. I cassetti dell'armadio si sono riempiti di cianfrusaglie fino ad esserne colmi. Poi è stato il turno della scrivania, del materasso superiore inutilizzato del letto a castello e, perché no, del pavimento.
Ho iniziato ad accumulare scatole e scatole di biglietti, bigliettini, quaderni, diari, giornali, accatastando cose veramente importanti insieme a oggetti quotidiani che le persone normalmente cestinano nel corso della giornata e la mia vita è andata avanti così per un periodo così lungo che non saprei quantificarlo. Ad un certo punto le cose erano così tante e lo spazio per muoversi così poco che ho deciso di disfarmi del letto a castello e in seguito addirittura di abbandonare la camera e di iniziare a dormire in salotto.
Avevo altri buoni motivi, per carità: ad esempio, per la particolare posizione della camera, la stanza era così umida in inverno che da anni passavo tutti i mesi freddi con una bronchite quasi cronica. Ma la verità è che io stesso non ne potevo più di farmi strada continuamente in tutta quella massa di oggetti, dai quali al contempo non riuscivo a separarmi.
Perché quegli oggetti raccontavano una storia ben precisa: la storia di una vita passata da recluso in casa, da solo, senza amici che non fossero quelli che mi creavo nella mia mente. Passavo le mattinate a immaginare partite di calcio; i pomeriggi a inventare giochi con le monete fingendo che a sfidarsi, insieme a me, ci fossero anche i miei compagni di scuola; la sera diventavo una rockstar di fama mondiale e la notte, se non riuscivo ad addormentarmi, immaginavo incredibili storie di Paperon de' Paperoni alla caccia di grandi e misteriosi tesori. E molte di queste cose che pensavo venivano annotate nei miei quaderni, pieni di risultati, di discografie immaginarie e anche di racconti. Perché se c'è una cosa che una infanzia e un'adolescenza estremamente solitarie mi hanno lasciato sono la passione per lo scrivere, la voglia di inventare storie che mi portassero via, lontano da quelle quattro mura di una casa in mezzo al nulla nella quale abitavo.

Mentre scrivo mi rendo conto che probabilmente questa sembra la confessione di una persona non propriamente sana, ma avevo i miei motivi per essere così insicuro, chiuso in me stesso al punto da allontanare anche quelle poche persone che forse hanno cercato di starmi vicino. Chi mi conosce bene sa di cosa parlo e chi non mi conosce può farsene un'idea leggendo "Il Decalogo", racconto che ho scritto alcuni anni fa e che è disponibile sul blog per il download (fine dello spot pubblicitario).
Ad ogni modo sono cresciuto, sono cambiato, lentamente ho iniziato ad aprirmi verso il mondo esteriore e facendolo ho compreso tante cose anche su me stesso.
La porta di camera è rimasta a lungo ben chiusa e, onde evitare di accumulare ancora, ho iniziato a gettare gli scontrini appena uscito dai negozi, a evitare di prendere depliant e fare a meno delle borse.
Non avevo più bisogno di quelle cose. Non avevo più bisogno di oggetti materiali ai quali affezionarmi e ai quali devolvere il ricordo di chi fossi stato in quel momento della mia vita.
Avevo un sacco di persone ormai a circondarmi, a volermi bene, ad amarmi: non ero più solo.
Un giorno ho riaperto quella camera nella quale nessuno entrava più da anni, deciso a mostrarla alla mia ragazza. Ho iniziato a buttare via, velocemente, senza quasi guardarli, oggetti che mi avevano fatto compagnia per una vita. C'erano giornali, poster e ritagli risalenti ai primi anni '90.
Ho passato giorni e giorni a gettare roba e ne ho buttata via talmente tanta da fare posto a due materassi legati a mo' di letto matrimoniale, ancora circondati da alcune scatole.
Era il mio modo per darle davvero il benvenuto, per aprirmi a lei come mai avevo fatto a nessuno. Benvenuta nel mio caos. Questo sono io.

Per un po' l'attività di pulizia si è interrotta: tra gli impegni universitari, alcuni viaggi e mille impegni, il tempo che passo in casa è davvero poco. Ieri però ho sentito che era arrivato il momento di portare a termine quanto iniziato.
È un periodo difficile per me: il periodo universitario è giunto al termine e con esso uno dei periodi più belli della mia vita. Un periodo nel quale mi sono tolto tante soddisfazioni e nel quale ho dimostrato a molti, ma soprattutto a me stesso, quello che realmente valgo.
La fine di un percorso è di solito l'inizio di qualcosa di nuovo e di progetti ce ne sarebbero tanti, ma mancano le risorse per renderli reali e un qualsivoglia tipo di aiuto da chi un aiuto potrebbe darlo.
Sento come un senso di incompiutezza, una vittoria mutilata, ma d'altronde piangersi addosso non serve a niente. E quindi si torna a lavorare, un nuovo anno di limbo in attesa dei veri traguardi.
Ed è giusto così, perché se c'è una cosa della quale posso andare orgoglioso la mattina, guardandomi allo specchio, è che tutto ciò che ho l'ho ottenuto col mio sudore, con la perseveranza e la forza di volontà, senza dare mai niente (e dico niente) per scontato.
Ora sono qui, nella mia stanza, che sembra sempre più una camera e sempre meno la personificazione di un cervello incasinato, e mi ritrovo tra le mani oggetti che non riconosco come miei, frasi che non ricordo di aver mai scritto, quaderni che mi disgustano e che non voglio più stiano lì a ricordarmi del tempo gettato alle ortiche e della persona che sono stato e che non voglio tornare mai più ad essere.
Gli scatoloni si svuotano, ciò che avrebbe dovuto finire nel cestino anni fa incontra finalmente il suo fato.
Si torna fuori a lottare: Io sto bene!

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