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domenica 27 settembre 2015

Vivere la vita una foto di Instagram alla volta

27.9.15

Premessa: questa non vuole essere una di quelle critiche contro i social e gli smartphone-dipendenti che vanno tanto di moda ultimamente, quanto una presa di coscienza. Perdonatemi, ma scrivo per riflettere: lo psicologo non me lo posso permettere.

C'è stato un tempo in cui un albero era solo un albero, un tramonto era un momento romantico ed un aperitivo era una bella serata passata con gli amici.
Ora il tramonto è diventato un #tramonto #sunset #nature #instanature #love #sun #redlight #vattelappescaperaltritrentordicihashtag

Qualche giorno fa ci pensavo, cercando di capire quando è successo: quando abbiamo smesso di vivere il momento e abbiamo iniziato a condividerlo?
Si, perché a fare da discriminante non è il fatto di poterlo fotografare: le macchine fotografiche le avevano anche i miei genitori e anche io da piccolo avevo la mia brava Kodak usa e getta (anche se forse il dover contare su un massimo di 24 foto contenute nel rullino faceva in parte da deterrente).
No, non è questo. Forse è il numero di like: vedere quel magico numerino che sale, sapere di essere apprezzati da un tot di persone più o meno conosciute crea un piacere ed una dipendenza maggiore di quella di un drogato di morfina.
Forse invece è l'idea di contribuire a qualcosa, di lasciare un segno, per quanto provvisorio, fugace e quindi da ripetere nel tempo per rimanere sempre presenti.

Prendo ad esempio Instagram, ma alla fine i meccanismi sono sempre gli stessi anche su Facebook o Twitter: ci sono quelli che pubblicano solo selfie, quelli che caricano le foto dei propri animali, chi fotografa ogni pietanza che gli finisce sotto gli occhi e anche c'avessero la peggior fame del mondo, lasciano che il primo a gustarsi quel piatto sia la fotocamera dello smartphone, ad uso e consumo dei propri followers ed infine ci sono quelli che vogliono fare gli artisti con la fotocamera scrausa da smartphone che si ritrovano.
Io credo di rientrare in questo gruppo: il mio Instagram è una sfilza di nuvole, luna dietro le nuvole, alberi davanti alle nuvole, monumenti ripresi di traverso perché fa più figo è così via, con alcune più o meno importanti incursioni negli altri settori della fotografia sociale, con una nutrita rappresentanza di foto alla mia colonia felina ed una (per fortuna più contenuta) selezione di selfie discutibili.

Quindi dov'è che voglio andare a parare? Instagram è il male e passare più tempo a fare foto che a respirare è demoniaco?
No. Non voglio dire questo nel modo più assoluto.
A me piace fare foto ai paesaggi e ai monumenti ripresiditraversoperchéfapiùfigo e modificarle al limite dell'irreale.
Ai miei gatti faccio quante foto voglio e per quanto riguarda i selfie, eventualmente ne parleremo in una seduta psicologica a parte.
In fondo fare una foto, due foto, dieci foto, non ha mai fatto del male a nessuno: tutto sta nel sapersi controllare e nel capire che a volte proprio per fissare quell'attimo indimenticabile, finiamo per rovinarlo, per banalizzarlo nell'illusione di rendere eterno qualcosa che era nato per essere momentaneo.
Perché certe cose sono belle proprio perché sono irripetibili, perché devi viverle e non basta collegarsi ad internet per esperirle e anche se riusciamo a fissarle in una foto, quello che abbiamo fermato nel tempo non ne è che una pallida rappresentazione.

E allora non lo so, io non ho una risposta. Ma forse dovrei dare più ascolto a quello strano brivido che mi prende a volte quando sono a giro per Firenze (perché se c'è una cosa bella dello studiare in una città come questa è quello di poterla girare e di viverla quanto più possibile) e all'improvviso il telefono si spegne e non ci sono prese della corrente o batterie di riserva a venirmi in soccorso.
Quel brivido appena appena percettibile dice in realtà una cosa ben chiara.
Ora sono libero.

sabato 26 settembre 2015

OK Google...

26.9.15
Settembre volge al termine, portando via con sé il tanto odiato caldo, e l'inizio di un nuovo anno accademico sancisce l'inizio di quel periodo nel quale la prima cosa che dico la mattina (dopo aver al massimo bofonchiato qualche saluto nel dormiveglia) è "OK Google: che tempo fa oggi a Firenze?"

Si, la prima cosa che faccio la mattina, subito dopo aver preso coscienza del mondo intorno a me, è parlare con un telefono. È triste, lo so.
Sullo schermo, che magicamente si accende al suono della mia voce suadente, compaiono le parole che ho appena pronunciato, scomparendo appena un attimo dopo per lasciare posto (con una gradevole transizione animata) alla risposta desiderata.

Che palle, direte, questo si ricorda di avere un blog dopo un anno e passa solo per fare l'ennesimo post disfattista su come le tecnologie ci hanno alienato dal mondo, su come le multinazionali, la CIA o l'impero galattico ci stanno privando della nostra privacy e  blablablabla.
La mia posizione sulla privacy nel mondo di Internet è forse complessa, sicuramente mutevole nel tempo, ma potrei riassumere il mio attuale modo di approcciarmi all'argomento con una immagine delicata, quanto d'effetto: immaginate ogni facilitazione che ci viene data, ogni servizio più o meno utile, come una nuova mano di vaselina passata nel metaforico orifizio della nostra privacy (parola che riempie le bocche indignate di tanti, che di questa benedetta parola probabilmente non si sono nemmeno curati di impararne la grafia, figuriamoci il significato). Date queste premesse "metaforiche", la mia posizione attuale è: fatemi i backup automatici, fate sì che possa fare ricerche online senza nemmeno premere un singolo tastino del PC o dello smartphone e potete sfondare il culo di questa mia benedetta PRAIVASI.
Comunque no, non è lì che volevo andare a parare. Non oggi almeno.

Il fatto è che questa cosa dell'"OK Google, che tempo fa oggi a Firenze", è diventato una  vera e propria routine. No, forse routine non è nemmeno la parola giusta, se presuppone una sorta di volontarietà a livello più o meno conscio dell'azione: è una cosa che va in automatico, come quando parcheggio la macchina e mi ritrovo fuori, già a quindici metri e devo tornare indietro a controllare di aver chiuso a chiave, perché ormai quello di inserire la chiave nella toppa e girare è diventato un meccanismo talmente oliato da essere passato sotto la soglia della coscienza.

Qualche mese fa Google mi ha mandato una mail (sempre in difesa della mia indifendibile privacy) per avvertirmi della disponibilità di un nuovo strumento online, attraverso il quale avrei potuto verificare in ogni momento tutte le informazioni che il sito ha raccolto su di me.Decido di entrare a dare un'occhiata e quello che mi trovo davanti dopo aver cliccato su un paio di link qua e là è lo storico delle mie ricerche vocali.
E non intendo la trascrizione testuale di ciò che ho effettivamente cercato, ma una sfilza (di una lunghezza impressionante) di file audio con la mia voce che dice cose.
"OK Google, quante nomination all'Oscar ha avuto Leonardo di Caprio?"
"OK Google, video Shia LaBeouf Do It"
"OK Google, Magalli è bello"
(la selezione delle frasi è da intendersi esclusivamente a titolo di esempio)

E all'inizio di ogni giorno c'era quell'immancabile filettino (da leggersi failettino, discutibile diminutivo della parola inglese "file" e non da intendersi come piccolo filetto), così ho passato un indimenticabile quarto d'ora a spararmi nelle cuffie la mia voce che giorno dopo giorno ripeteva quelle stesse identiche parole, a volte strascicandole, altre scandendole bene.
Ascoltando con attenzione si potevano anche cogliere dei rumori di sottofondo: mia sorella che gridava dalla sua stanza per chiedere qualcosa a mia mamma, una canzone di sottofondo, la musichetta del segnale orario del TG5 proveniente dalla cucina (che qui potete godervi nella fantastica versione mash up con il DO IT di Shia LaBeouf citato poc'anzi).
Piccoli, inutili momenti di vita dimenticati un attimo dopo essere stati vissuti, ma custoditi gelosamente nella banca dati di una delle aziende più importanti del mondo.
Forse non erano così piccoli ed inutili, dopotutto.

Uno dei principi di Internet è che niente è gratis: quello che non paghi con moneta sonante, lo paghi in altro modo. Vi avevo promesso che non avrei fatto il pippone sulla privacy e non lo farò perché non credo sia con la privacy che ho pagato (e pago) questa strana transazione.
È qualcosa di più subdolo, di più sottile.
Probabilmente la moneta è la fiducia. Meglio, la fede: rinuncia ad ogni dubbio e trova in me le risposte.
Non lo so, ci devo riflettere, ma di una cosa sono certo: bello il nuovo font, cara Google, ma quella G multicolore che usi adesso come logo fa proprio cacare.

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